L’interrelazione: la casa dell’arte
L’artista è nomade, Matteo Fraterno è anche artista interrelazionale che opera attraverso un linguaggio non radicato soltanto ad una produzione di forme ma ad una posizione etica che prevede scambio e dialogo.
Attraverso materiali smaterializzati, vaporizzati, impalpabili, ecco l’artista costruire la casa dell’arte. Una casa montabile e smontabile come la tenda del nomade nel deserto, che lo protegge ma non lo blinda come una trincea né gli assicura sopravvivenza definitiva. Egli ha bisogno di una casa mobile, in cui sostare e da cui partire.
L’arredo è necessariamente provvisorio ed il mobilio pronto per ogni trasloco. Qui prevale uno stato di dormiveglia, intermedio tra clima notturno e clima diurno, una condizione di ambiguità, abbandono e lucidità.
Ecco allora la casa dell’arte appartenere più alla cultura della diaspora, un eterno movimento a cui l’artista per propria scelta si abbandona, non in maniera passiva, come chi subisce il destino tragico imposto da altri. Per questo motivo noi parliamo di “diaspore dell’arte”, un plurale che conferma un grande rispetto per il destino tragico di molti popoli, ebraico ed anche palestinese.
Le diaspore dell’arte assicurano laicità al significato di questo termine e designano anche la scelta dell’artista stesso: stabilire relazioni con altri artefici. Ecco allora la casa diventa luogo di incontro non solo dell’artista che ha progettato un atteggiamento interrelazionale con altri soggetti ma la fondazione di un appuntamento sociale anche con gli spettatori, invitati ad entrare, a scorrere lungo le scale e visitare le singole stanze abitate da un’arte volutamente non possessiva ma possidente.
La casa dell’arte diventa il luogo dell’oasi, dove trovano insieme sosta, beneficio, accoglienza e forse anche bevande artisti e spettatori. Uno spazio dove ci si può abbandonare allo spettacolo e anche al riposo, inteso come sosta fomentata dalla qualità interrelazionale dell’evento.
In tal senso allora “Conservare l’inconservabile” per Matteo Fraterno significa poter montare e smontare ogni incontro, poter depositare il progetto dell’artista nell’archivio della memoria collettiva e risuscitarlo quando ce n’è bisogno.
Una memoria che dà protagonismo, non solo allo spettatore ma identità all’artista che l’ha progettata. Di quale progetto noi parliamo? Non certo del progetto abitato ancora della superbia razionalista dell’artista delle avanguardie storiche, supportata dal concetto di utopia, che significa etimologicamente non–luogo. Qui invece il luogo esiste con un suo preciso indirizzo civico.
Perciò l’artista è consapevole che l’arte non può essere più un non-luogo a procedere. Deve passare dalla utopia alla distopia, la sovrapposizione dell’opera alla storia e alla realtà che non possono essere cancellate. L’architettura in questo caso diventa lo spazio del riscatto, la prova che si possa ancora praticare un progetto interrelazionale.
Ma si tratta di un progetto dolce, che non vuole riversare all’esterno la forza aggressiva dell’arte ma vuole dare un ordine morale al mondo e al sistema dell’arte. Ecco la prova di uno spirito resistenziale, una capacità costruttiva del linguaggio di organizzarsi in maniera delicata e non autoritaria.
Contro l’uso indiscriminato, potenzialmente autoritario della proprietà privata, (in questo caso felicemente contraddetto dall’ospitalità di Giuseppe Morra) l’artista è quello che propone le proprie suppellettili al servizio della fantasia, dell’immaginazione e dell’unica avventura possibile, per transitare nel XXI secolo.
Avviene così un altro miracolo non di San Gennaro ma fatto dall’arte, il cognome Fraterno si trasforma in un sostantivo, Fraternità. Una interrelazione tra tutti gli artisti che abitano la casa dell’Arte in Corso Vittorio Emanuele 341 a Napoli.
Achille Bonito Oliva, 2010
Photo: Michael Clegg, 2012